Analisi politiche, Attualità

L’elefante nella stanza

Sono passati quasi otto mesi dal 20 febbraio. Otto mesi da quel primo caso accertato di Coronavirus a Codogno che ha sconvolto l’Italia, capovolto le nostre abitudini, sopraffatto la nostra esistenza e calpestato libertà così radicate da essere considerate sostanzialmente scontate. Nessuno, suppongo, avrebbe mai immaginato di vivere un’esperienza così totalizzante e psicologicamente logorante. Il panico, gli ospedali in tilt, le sirene delle ambulanze a tambur battente, le persone costrette a soffrire o morire in casa senza assistenza medica, la mancanza di tamponi, di presidi medici per gli operatori sanitari, i cimiteri pieni e i camion militari che trasportavano le bare di chi non ce l’aveva fatta, privato anche della pace della sepoltura e della possibilità di ricevere l’ultimo saluto e l’affetto dei propri cari. E ancora, il lockdown, con la privazione pressoché totale della libertà individuale, l’indisponibilità del proprio tempo, con abitudini e consuetudini spazzate via con un colpo di spugna. Da un giorno all’altro, il Mondo che abbiamo sempre conosciuto non è più esistito.

Cercare di mettere in fila tutti gli eventi che hanno sconvolto la nostra esistenza tra fine febbraio e metà maggio è un’impresa improba e probabilmente non basterebbero tutte le parole del dizionario per descrivere le sensazioni che molti di noi hanno provato, e continuano a provare, al solo pensiero di dover rivivere tutto questo. Dalla fine del lockdown, abbiamo pian piano ripreso a vivere le nostre vite, a uscire, a rivedere i nostri amici e le nostre famiglie, a sorridere anche pensando al pericolo scampato o ricordando qualche nostro caro che, invece, purtroppo, la vita dopo il lockdown non ha potuto rivederla.

Abbiamo viaggiato, siamo andati al mare, al parco, in piscina. Siamo andati a cena al ristorante, a bere al pub, a fare colazione al bar. C’è chi ha lavorato alacremente per recuperare i mesi di mancati introiti e cercare di allontanare lo spettro del fallimento. C’è chi è andato a in discoteca, chi ha festeggiato compleanni o lauree. C’è chi ha rispettato le regole e chi, purtroppo, no. Tutti noi, però, chi più e chi meno, abbiamo cercato riprendere in mano quella vecchia vita che l’avvento della pandemia globale ci aveva letteralmente sfilato dalle mani, cercando di rimuovere il doloroso ricordo di quei mesi angoscianti.

A settembre, al ritorno dalle ferie e alle porte di un nuovo anno scolastico, con i casi di contagio sotto il livello di guardia e un senso di rinnovata speranza, abbiamo pensato di essere davanti a un nuovo inizio, sereno.

Al di là del confine, però, da qualche settimana la situazione stava peggiorando. Francia e Spagna soprattutto stavano iniziando ad affrontare le prime ondine di quella che di lì a breve si sarebbe trasformata in un’ondata di ritorno del virus, con una crescita dei contagi al ritmo di migliaia al giorno.

Qualcuno in quelle settimane di fine estate ha provato a lanciare l’allarme, a mettere in guardia l’opinione pubblica sull’esistenza di un rischio e la necessità di prendere adeguate contromisure per non finire allo stesso modo di Francia, Spagna e Uk. Altri, invece, hanno preferito gettare acqua sul fuoco, ridimensionare le preoccupazioni e insistere nel sostenere che la seconda ondata non sarebbe arrivata in Italia, che il Coronavirus era “più buono” rispetto a marzo, dichiarando con sprezzante presunzione che mai avremmo rivissuto l’emergenza di inizio anno e che dovevamo tornare a vivere.

Come a marzo, da uno stato di apparente tranquillità, all’improvviso siamo ripiombati nell’incubo, nel giro di pochissime settimane. Oggi, 18 ottobre 2020, abbiamo registrato in Italia oltre 11.000 casi, con un tasso di positività che sfiora l’8% a livello nazionale. Gli ospedali sono in affanno, i ricoveri in terapia intensiva non costituiscono un dato allarmante al momento, ma dato il tasso di crescita dei contagi e l’aumento della platea dei positivi al Coronavirus, la preoccupazione è che l’Italia possa ripiombare nell’incubo di marzo entro poche settimane a causa della massiccia e incontrollata circolazione del virus in tutto il territorio nazionale (ed europeo, aggiungerei).

Nonostante l’esperienza vissuta solo otto mesi fa, il pericolo di una seconda ondata epidemica sembra non essere così percepito. Nè dai cittadini, fortunatamente non la maggioranza, né dalle istituzioni che dovrebbero occuparsi di gestire la situazione. Situazione che, però, purtroppo, non stanno gestendo ora e che non hanno saputo gestire nei mesi tranquilli, quando avrebbero dovuto, forse perché convinti che il pericolo fosse ormai scampato, che il peggio fosse passato, che non avremmo più potuto rivivere quella strage.

In fretta e furia, però, nel giro di pochi giorni, come la situazione si è fatta allarmante, il Governo e le Regioni hanno iniziato a pensare di correre ai ripari e di individuare le situazioni che potrebbero costituire maggior pericolo in questo momento. Hanno iniziato a lavorare a ciò a cui avrebbe dovuto lavorare a metà ottobre invece che a giugno, luglio e agosto per arrivare preparati alle porte dell’autunno con un’organizzazione dei mezzi di trasporto il più possibile sicura e pressanti incentivi allo smart working per renderla sostenibile, un sistema di test and tracing potenziato sfruttando il piano di uno che di tamponi se ne intende, Crisanti, un potenziamento della rete ospedaliera e della medicina sul territorio. Cos’è stato fatto nei mesi estivi non è dato saperlo. Sicuramente qualcosa è stato fatto, lasciando perdere gli assurdi banchi a rotelle, ma quel che è stato predisposto è insufficiente a contenere una seconda ondata di queste proporzioni. Insufficiente perché, probabilmente, per mancanza di lungimiranza, una nuova emergenza nessuno se l’aspettava veramente.

Così, ci siamo ritrovati ad assistere al solito estenuante balletto di anticipazioni sbattute sui giornali e con calma smentite dopo qualche ora o giorno. Per giorni sono state ventilate una serie di restrizioni, strazianti ma in certe zone d’emergenza più che necessarie, per fermare la circolazione del virus nelle aree del Paese che più stanno soffrendo in questo momento, e tutto è finito nel nulla. Il Cts, che lo dice da aprile, è tornato a sottolineare incessantemente che i mezzi pubblici con capienza all’80% costituiscono un pericolo, ma in televisione il ministro De Micheli ha sostenuto, invece, che 5 persone per metro quadro su un autobus o una metro viaggiano in sicurezza.

Il coprifuoco, proposto nel tentativo di ridurre la socialità e la convivialità che, purtroppo, sono il veicolo preferito del virus data l’assenza di mascherine mentre si mangia e si beve in comitiva al pub e al ristorante, è scomparso nel nulla, nonostante fosse dato per certo da giorni. Al termine della riunione tra Regioni e Governo tenutasi oggi è circolato un documento che metteva nero su bianco una serie di proposte degli enti locali per nulla rispondenti all’emergenza sanitaria che meriterebbe misure ad hoc con urgenza per non dover fare i conti con limitazioni e restrizioni ancor più pesanti, come a marzo. Dopo giornate di rimpalli, liti, indiscrezioni e smentite, il presidente Conte ha tenuto l’attesa conferenza stampa sul nuovo Dpcm. Al termine della diretta, un po’ tutti ci siamo chiesti perché diavolo avessero messo su tutta questa pantomima per non cambiare praticamente nulla.

Come a cavallo tra febbraio e marzo, nessuno vuole assumersi responsabilità. Di nuovo c’è la corsa a minimizzare la situazione, lo scontro di potere tra Stato e Regioni, tra maggioranza di Governo e opposizione, tra fazioni che sembrano pensare a tutto meno che al bene comune. Le stesse polemiche, gli stessi errori, la stessa lentezza, la stessa mancanza di lungimiranza, in un quadro reso ancor più complicato dalla crisi economica, da un primo lockdown che ha logorato la pazienza di molti e, non ultimo, dal totale svilimento dell’autorevolezza della Scienza che da mesi viene mortificata, sfruttata e piegata nel tentativo di dare lustro a pericolose ipotesi sbandierate come certezze e che allo scontro con la realtà si sono sciolte come neve al sole.

Che l’emergenza sanitaria abbia assunto i contorni di una battaglia politicamente ideologizzata è evidente da mesi. Commettere errori a febbraio e marzo, di fronte a una situazione assolutamente inedita, conducendo una battaglia ad armi impari contro un virus sconosciuto e piuttosto pericoloso, poteva essere anche giustificabile. Assistere inermi agli stessi errori ora, dopo mesi, nonostante il vivido ricordo del disastro provocato dai temporeggiamenti e dalle mancate assunzioni di responsabilità di febbraio per rincorrere il consenso dell’opinione pubblica, è francamente inaccettabile. Perché il virus ora lo conosciamo e sappiamo che danni può provocare in poco tempo. Perché che il tempo è tiranno e che ogni giorno di ritardo andrà a peggiorare sensibilmente la situazione lo sappiamo.

L’elefante nella stanza è lì, che incombe. E ignorarlo non funzionerà. Ce lo ha già dimostrato ampiamente.

Charlotte Matteini

Mi chiamo Charlotte Matteini, sono nata il 30 dicembre del 1987 e tra pochi mesi compirò *enta anni. Sono laureata in una materia piuttosto bistrattata: comunicazione politica. Ho un passato da consulente, professione mollata per seguire la mia vera passione: il giornalismo. Sono ufficialmente giornalista dal 2016, ufficiosamente dal 2011, e mi occupo di politica interna e polemiche assortite.

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