Fact-checking&Debunking

Le responsabilità dei media/2

Torno sulla storia del “rider felice” pubblicata da Il Messaggero il 15 gennaio scorso e ripresa da Antonella Boralevi su La Stampa, che tanto ha fatto discutere sui social ieri. Torno sulla vicenda perché credo sia doveroso mettere in fila una serie di considerazioni sullo stato comatoso del giornalismo italiano. Facciamo un breve riassunto della vicenda: qualche giorno dopo la pubblicazione dell’opinione di Boralevi su La Stampa, sui social inizia a girare lo screenshot dell’articolo intitolato “Da commercialista a rider felice” in cui Boralevi magnifica l’esperienza di Zappalà e, in sostanza, utilizza la sua storia per criticare i percettori del reddito di cittadinanza che non colgono al volo l’occasione di lavorare come rider.

Boralevi come base del suo articolo utilizza l’intervista de Il Messaggero a firma di Francesco Bisozzi nella quale Zappalà racconta di essere un ex commercialista che ha deciso di chiudere il suo studio a causa della crisi da Coronavirus e di aver iniziato a fare il rider per Deliveroo con grande soddisfazione, guadagnando cifre che vanno dai 2000 ai 4000 euro al mese facendo circa 100 km al giorno in bicicletta. Una storia che definire assurda è davvero un eufemismo. Poco importa, però, perché agli occhi dei due cronisti dev’essere sembrata assolutamente veritiera tanto che è stata pubblicata e addirittura utilizzata come base per un pezzo di opinione.

Peccato che a rompere le uova nel paniere siano arrivati i debunker, come David Puente e Stefano Colombo, e gli utenti di Twitter, come la sottoscritta, che dopo qualche giorno hanno notato questa strampalata storia e hanno subodorato la puzza di bruciato lontano chilometri. Facendo brevissime ricerche è venuto fuori che Zappalà non risultava iscritto all’ordine dei commercialisti – strano -, che non risultava su alcun social network e che invece fino a qualche mese fa sui gruppi Fb di Deliveroo un quasi omonimo – tale Emanuele Zappalà, delegato di Ugl e firmatario del contratto capestro che qualche mese fa ha fatto molto discutere nella comunità dei rider – che si spendeva come un gladiatore contro i leoni per difendere l’assoluta bontà delle piattaforme di delivery che operano in Italia, attaccando qualsiasi tipo di normativa o tentativo contrattazione volti a regolarizzare i rider e a dare loro tutele. Come ho raccontato qui, Assodelivery non è nuova ad attività di lobbying sottotraccia che prevedono la divulgazione di storie abbastanza imbelletate per raccontare sui giornali il favoloso mondo del delivery facendole sembrare testimonianze assolutamente spontanee.

Ore dopo, la polemica è montata costringendo Emanuele Zappalà a uscire allo scoperto e ad ammettere che, insomma, le informazioni riportate non erano esattamente veritiere. Come si legge in un tweet divulgato da Nunzia Penelope, Zappalà ha smentito nell’ordine: la sua età, la sua professione, la data di inizio del lavoro con Deliveroo, l’ammontare degli stipendi, l’utilizzo della bicicletta come mezzo di locomozione e ha ammesso di aver avuto un ruolo nella trattativa Assodelivery-Ugl.

Zappalà, inoltre, in un commento sui social, ha sottolineato di non aver mai dato quelle false informazioni al giornalista, sostenendo fosse colpa di un’incomprensione. Altra scusa che non si regge in piedi, perché è davvero difficile credere che il giornalista abbia equivocato così tanti elementi del racconto.

Dalle false informazioni contenute nell’intervista, si arriva al pezzo di opinione di Boralevi contro il reddito di cittadinanza che dà il là alla polemica. Dopo qualche ora, La Stampa ha pubblicato una nota integrativa al pezzo di Boralevi e un’ulteriore nota di chiarimento sottolineando che quella di Boralevi fosse un’opinione e non una notizia sulla condizione dei rider e come tale non “è stata passata” come avviene per le notizie. Il punto fondamentale, però, è che Boralevi ha scritto un’opinione su un fatto non verificato, fidandosi dell’intervista realizzata da un giornalista che non ha verificato (senza nemmeno accorgersi della grossolanità delle fandonie raccontate, ma questa è un’altra storia).

Concluso l’excursus della tragicomica vicenda, rimangono aperti moltissimi interrogativi sulla qualità del giornalismo italiano e l’incomprensibile e trasversale mancanza di qualsivoglia processo di verifica dei fatti e delle fonti che così spesso fa fare figure barbine ai media italiani, tradizionali e non. Perché quella di Bisozzi e Boralevi è una vicenda eloquente, ma è solo la punta dell’iceberg, l’ultimo capitolo di un’epica serie di gaffe, figuracce ed episodi di disinformazione sul tema.

Penso, per esempio, per citare uno dei più eclatanti esempi, a tutto il filone di letteratura giornalistica che potremmo ribattezzare “Il lavoro c’è, sono i giovani che non hanno voglia di lavorare”. Mi riferisco a tutti quegli articoli che, negli anni, hanno cercato di descrivere gli under 35 come una mandria di scansafatiche che, a fronte di migliaia di posti di lavoro papabili e disponibili, non hanno alcuna intenzione di cogliere al volo l’occasione. Negli ultimi anni, decine e decine di articoli hanno raccontato le vicende di poveri imprenditori che offrono lavoro e non trovano nessun giovane volenteroso disposto a darsi da fare. Spessissimo, però, andando a scavare, si è scoperto che le condizioni offerte, e raccontate al giornalista di turno che si è prestato a fare da megafono, non erano affatto simili a quelle propagandate.

E allora, non sarà venuta l’ora di interrogarci sulla questione, di ammettere che questo tipo di narrazione non è un semplice “scivolone” perdonabile ma una scientifica descrizione di un’irrealtà che chi racconta non conosce affatto? E potremmo anche sottolineare, una volta tanto, che se a prestarsi a questo tipo di narrazione sono perfino firme importanti non ci si può trincerare dietro la scusa dell’opinione ma ammettere che proprio perché le firme danno risonanza a fatti non verificati, lo scivolone è ancor più grave? E non sarebbe, infine, anche l’ora di chiedersi per quale motivo per chiunque sia così semplice mettere nel sacco dei giornalisti raccontando fregnacce, sicuri di passarla liscia a meno che qualche rompipalle di turno non ci metta becco?

Perché qui il problema è di metodo, un metodo che rivela la profonda inadeguatezza di tanti colleghi a trattare questioni delicate, quasi fossero di poca importanza e quasi fosse, invece, molto più importante la rincorsa di click e viralità. Con buona pace del giornalismo e della corretta informazione.

 

 

 

 

Charlotte Matteini

Mi chiamo Charlotte Matteini, sono nata il 30 dicembre del 1987 e tra pochi mesi compirò *enta anni. Sono laureata in una materia piuttosto bistrattata: comunicazione politica. Ho un passato da consulente, professione mollata per seguire la mia vera passione: il giornalismo. Sono ufficialmente giornalista dal 2016, ufficiosamente dal 2011, e mi occupo di politica interna e polemiche assortite.

Potrebbe piacerti...

1 commento

  1. mi sembra che questa storia sottilmente descriva la crisi profonda di contenuti su temi importanti come il lavoro e la speranza di un futuro migliore ….secondo me non c’entra neanche una consapevolezza profonda…perchè non ci sono le condizioni. Tu hai toccato un tema importante proprio perchè tocca i giovani e le loro prospettive.
    penso che tu l’abbia fatto consapevolmente al di la di sbugiardare la notizia strampalata.
    hai messo degli elementi che fanno riflettere ma che sfuggono ai più.
    e il mio pessimismo cresce ….la deriva dell’integrità psicofisica dei ragazzi rischia di essere una cicatrice permanente.

    mi fido di te e della tua lucidità….non mollare
    un caro abbraccio

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.